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Mi sento un'iper sfera

Sono tre parole, “Ti Voglio Bene”…

Lavagna Tre Parole

Amo le biblioteche, anche se, purtroppo, ho poco modo di frequentarle, ma internet, se si pensa che sia un mezzo e non un fine, è proprio una grande invenzione. Un mare di nozioni pronte all’uso, senza dover scartabellare schede, nella speranza di trovare quello che stiamo cercando. Magari una spiegazione, un chiarimento.

Succede così di navigare alla ricerca di nozioni che ci consentano di fare meglio quello che già stiamo facendo, o meglio, cercando di fare. In rete manuali e tutorial non mancano ma, spesso, sono come le istruzioni per il lucido da scarpe: “Applicare, spandere, spazzolare, lucidare. Ciao, al prossimo tutorial“.

Nel mio frugare per capire qualcosa di più sulla scrittura creativa, sulla gestione dei blog, e tutto ciò che ne è il companatico, sono invece inciampata più volte nel sito di Daniele Imperi, Penna Blu, “web writer, lettore“,  ironico e cortese anfitrione, che non manca di rispondere ai commenti di chi segue i suoi articoli.
Un blog “in cui parlare di scrittura, blogging, editoria e lettura“, esaustivo, argomentato, oltre che ben frequentato.

Oggi, leggendo un suo articolo, ho decido di accettare il suo invito, quello di scrivere tre parole che siano propositi e guida per l’anno appena iniziato, il 2018.
Sì, però mi ha messo in crisi. Quali sono i miei propositi? Da una vita ne perseguo uno, tutto è finalizzato a quello, il mio Olimpo.

Ci penso un po’, lascio che i pensieri sgelino come le stallatiti al davanzale e scrivo quello che mi passa per la testa, di getto, come sempre.
Scrivere e dipingere. Ma il mio lato creativo non è un proposito, è istinto, come respirare. Devo dunque separare i propositi dal “divertimento” e dalle mere esigenze, come il “vil conquibus“.
La gestione del blog non dipende da me sola, che in realtà in quanto a materiale potrei campare di rendita con tutto ciò che ho prodotto negli anni passati, parole ed opere, ma anche dal tempo che ha il mio informatico preferito, Reddolphin, che si arrabatta tra lavoro e gestione dei siti, indi, io posso proporre, ma non disporre.
Ordinare. Seee, mi ci vorrebbero almeno cinque operai per un mese, e forse non basterebbero. Non è maturo.

R-esistenza. Beh, quello ce l’ho marchiato in fronte e non può essere per un anno solo, è una regola di vita imprescindibile.
Organizzare. Questo sì che è un proposito grosso. Il mio caos è universale. Eppure dovrò almeno cominciare da qualche parte.

Ci sono.
Pazienza. Non posso fare tutto e tutto insieme. Devo farmi passare l’ansia e dare la precedenza alle cose più importanti senza entrare nelle stanze del panico.
Delfino. Senza di lui niente blog, e se voglio che mi presti il suo tempo devo dargli il mio. Do ut des. Mi sembra giusto, anche se ha il potere di mandarmi a massa il cervello.
Ordinare. Siccome non posso ordinare la mia magione, visto che non posso usare la bacchetta magica al momento dal meccanico, comincerò con ordinare la mole di dati che ho nel pc. Decenni. Chissà che non ne esca qualcosa di editabile. Devo salvare tutto e riformattare, e via col valzer, che mi è più congegnale del tango.

Ecco, queste sono le mie tre parole per quest’anno: Pazienza, Delfino, Ordinare.
Perché il titolo “TI VOGLIO BENE”? Perché: Ti, è proteso verso il prossimo, Delfo che chiede aiuto, Daniele che offre opportunità; VOGLIO, è un verbo insito nei propositi, ché senza volontà di perseguirli a nulla servono; BENE, perché quando ci si propone di fare qualcosa si deve poi farla bene, altrimenti è meglio non farla.

Un sentito ringraziamento a Daniele, per l’invito e per l’input, e a  Delfo per lo sbattimento.
Un ringraziamento anche a Barbara Businaro che ha partecipato all’iniziativa e che mi ospita sul suo bellissimo blog Webnauta. Rivolto a scrittori, lettori e non solo, è ricco di racconti, dritte e tanto altro. Anche lei da seguire.

Tiade, 6 marzo 2018

Dai blog:

  1. 3 parole per il 2018 di Daniele Imperi – Penna Blu.
  2. Tre parole per una rotta di Barbara Businaro – Webnauta.

* Il titolo richiama una canzone di inizio novecento.

Vecchia signora

Vecchia signora - erba ghiacciataIl vento gelido entrava fischiando dalle finestre rattoppate alla meglio.

La vecchia signora accese la pipa riflettendo sul camino che invece non poteva accendere, ben consapevole che c’era chi stava peggio di lei.
Guardò il termometro in casa, quattro gradi e mezzo. Imbruniva e la temperatura sarebbe scesa ancora.

“La neve di febbraio ingrassa il granaio”, pensava, “e anche le sorgenti impoverite da anni di siccità”.
La radio parlava la lingua del jazz mentre volute di fumo aleggiavano nella stanza, diafane come i suoi pensieri.
Anche se godeva della solitudine, le mancava il suo grillo parlante, quel pungolo sulla sua autostima.

-Disciplina soldato, devi scrivere almeno un’ora al giorno! Ah se fossi tuo marito, ti legherei alla sedia. È un delitto che tu non scriva più, un delitto…-

La voce sfumava nel ricordo, ma le parole erano ben impresse nella sua mente. Mon Chevalier, il suo Prof che prof suo non era stato mai.
Non amava vivere di ricordi, ma a volte vi si perdeva. Guardò il caos organizzato intorno a sé, era il presente, ma il suo pensiero era perennemente proiettato in avanti, al futuro, all’antica casa in pietra da restaurare. Al sogno condiviso con suo padre che troppo presto l’aveva lasciata sola. Quell’Olimpo in cima alla collina che le aveva sempre suscitato dimensioni di fiaba.
Forse non ci sarebbe mai arrivata, ma i sogni per diventare progetti vanno rincorsi come se il tempo fosse infinito.
Era consapevole del tempo che passava, un nastro un po’ liso, ma ben resistente.

Tutto si sentiva meno che una vecchia signora, aveva imparato a stupirsi di sé, si era scoperta forte, temprata e selvatica come non avrebbe mai creduto, e non solo dentro. Il quadro che ne usciva, in fondo, era un bel romanzo di avventura. Chissà se sarebbe mai riuscita a scriverlo, o se il pudore, schiavista, le avrebbe incatenato le parole.

Non si decideva ad abbandonare il tepore della boule per dare una pacca alla radio che si era assopita gracchiando.
Aveva spento la stufa per paura che il gas finisse troppo presto.
La notte gelida avvolgeva ormai la casa e il termometro segnava zero gradi.
Sui vetri erano fiorite rose di ghiaccio, scintillanti alla fioca luce dell’unico lampione del borgo che rabbrividiva al vento siberiano.

Anche la neve caduta era gelata e tutto luccicava, gli alberi dei boschi che abbracciavano il suo mondo, l’erba di vetro e anche il sentiero che scricchiolava al passo. Le mani gelate le ricordarono i guanti che non trovata, li aveva messi a posto, ma a posto dove?

Assestò meglio la pelliccia d’orso sul letto, o di qualsiasi animale indefinito fosse, grata del suo sacrifico. Mors tua vita mea, così il mondo era sempre andato. Si sentiva un po’ cinica, ma il gioco della sopravvivenza non ammetteva deroghe, o sapevi giocare o…
Posò la pipa e si decise ad alzarsi per prendere la radio a sberle. Mise un po’ d’acqua sul fornello a gas per un caffè, liofilizzato. -Le cose superflue sono inutili, fanno solo perdere tempo-, le diceva sempre Cesare, il suo amato suonatore Jones personale, ultimo legame con una memoria antica. E una caffettiera consuma più gas, e più tempo, e lei non aveva abbondanza né dell’uno né dell’altro. E poi, in fondo, non faceva tanto schifo, e almeno era caldo.

Mentre sorbiva il caffè un flauto di ghiaccio la riscosse dai suoi pensieri facendola rabbrividire.
Sentì nitida la risatina, ironica e affettuosa, del suo Chevalier:
-Ascolta il vento, sarebbe un bel titolo-

Sorrise.
Spense la radio, tornò sotto il suo orso, assestò il portatile sulle gambe e si mise in ascolto.

Tiade  25 febbraio 2018

Fischia il vento

Fischia il vento - finestra

Tchaikovsky accompagna il vento che fischia forte dal vetro rotto. Non basta la plastica, stanotte morde.

Eroi di Siberia, decadenza Tolstojana.

Rotolano i pensieri insieme alle note che le dita gelate rincorrono. Le mani, solo due. Dove sono le mani?

Non brontolare, non è ancora febbraio, non c’è un metro di neve. Arriverà, preparati.

Cammino nella tempesta spiando uno spiraglio. Le scarpe non son rotte ma bisogna andare.

Fare, fare, andare, andare… svelta, il buio avanza, non hai luce, svelta, svelta.

Voglio fermarmi, voglio dormire.

Resistenza non è una parola, è cocciutaggine. Non puoi fermarti, non ti puoi addormentare.

Ma per quanto ancora?

Finirà, finirà, lascia correre, i pensieri e il tempo, finirà.

Non mi chiamo Anna.

No, e non hai nemmeno un treno!

Tiade, 2 dicembre 2013

I GIOIELLI DEL TEMPO

Fossile nautiloide
Fossile 2 luglio 2004

È una conchiglia, gioiello piccolo quanto l’unghia del mio mignolo, che mi è stata “donata” zappando la terra per trapiantare le mie fragole di bosco, sui colli dell’Appennino ligure a 800 s.l.m. Bellissima la sua coda di cristallo di rocca. Ha una compagna un po’ più piccola (di cui non ho foto) che sul fianco ha disegnato uno stupendo frattale.
Ho fatto ricerche per cercare di classificarla ma non è facile.
Noto che non ha più tracce di calcio ma è totalmente marmorizzata, per cui molto più antica delle conchiglie fossili incastonate nei sassi che tanto mi affascinavano da bambina e che conservano ancora il guscio calcareo. Questa è ormai solo una forma riempita e solidificata di quello che fu l’animale, anzi, la sua casa, che le parti molli non fossilizzano.

Noto che le sue spire sono separate e da quello che ho capito le spirali si sono incollate solo in tempi successivi, per cui dovrebbe essere arcaica. Non ha increspature e da quello che ho letto dovrebbe essere un nautiloide, quindi un animale marino e diverso dalle ammoniti che sono molto increspate.
Vorrei tanto sapere la sua età, quale era il mare che abitava e in quale era, quali erano i vegetali del suo ambiente, il clima in cui viveva e di cosa si nutriva.
Com’erano disposti i continenti? Come era la Terra che l’ha vista nascere?

Tiade 26 novembre 20017

Vorrei le ali

Tiade farfalla vorrei le ali 2017Vorrei avere le ali,
ché la schiena non si spezzi
sotto il fardello
del corpo stanco.
Irriducibile il passo.

Vorrei avere le ali,
ché implacabile è l’erta
e sollevare il peso
dalle orme insanguinate.
Torrido asfalto.

 

Vorrei avere le ali,
ché limpido è il cielo
e accompagnare il volo
del gheppio che saluta.
Incedere lento.

Vorrei avere le ali,
ché pesante è la terra
e fermare il rullio
del cuore impazzito.
Lancinante esistenza.

Vorrei avere le ali,
ché sia meno greve la salita.
O non rialzarmi più,
sotto l’ombra del noce
a coltre lieve

Tiade, 9 nov 014

Tiade e le lucciole

Dieci anni ormai sono passati dal mio arrivo ma non la sensazione di essere immersa in un incantesimo.
Ripercorro gli antichi sentieri con gli occchi pieni di memoria ma con la meraviglia intatta. La macchina fotografica è lo strumento dei sogni e delle nostalgie, e compagna di giorno e di notte, quando mi piace scandire il tempo della gratitudine rinnovando le “tradizioni della ruota”, come portare piccoli doni agli esseri della foresta o lavarmi alle sorgenti immersa nell’universo di Pan.
Oggi sono scesa fino in paese seguendo il volo del gheppio in un cielo di zaffiro. Immersa nella luce, respiro la sensazione di immensità protetta dall’abbraccio dei colli che coronano la valle.
La risalita a piedi, con il fardello della spesa, è un incedere lento. Sono solo tre chilometri ma l’erta è implacabile.
Mi fermo ogni tanto sotto la quercia o, dopo la curva, sotto il noce, per chetare un poco il rullio del cuore impazzito. Il gheppio non c’è più e io, come lui, vorrei avere le ali. A casa ci arrivo, e ogni volta mi stupisco di esserci riuscita.
Mi concedo riposo e aspetto la notte, quando il mondo può solo sognare ciò che io vivo, per ristorare il corpo alla sorgente dalla fatica della giornata. Cammino, al ritmo di un’orchestra diretta dalla brezza dove “l’albero sussurrante” accompagna l’usignolo, e non mi sento sola.
Tiade e le lucciolePochi passi e sono arrivata sul sentiero che porta alla fonte, tendendo l’orecchio ché lo sgocciolio dell’acqua mi guidi nel buio. La luna è solo un ciglio albino e mi aspettavo di non vederci… e mi si è mozzato il fiato!
Tutte le stelle sono scese dal cielo a illuminarmi il cammino. È uno spettacolo unico, il sentiero, gli arbusti, i rami e l’aria stessa sono fosforescenti di lucciole.
Mi fermo e cerco di impostare la macchina fotografica “a naso” sperando di coglierle come si colgon le stelle.
Rido, sommessa, da sola, “le fate” bisbiglio a me stessa, “le mie fate mi accompagnano!”.
Non è invece difficile trovare le vasche, sono rischiarate da una luce irreale.
Mentre mi lavo la testa sembra che vogliano entrare nel secchio. Sono tempestata di gemme.
Non sento il freddo dell’acqua mentre mi lavo, sono circondata e l’emozione è la stessa della bimba incantata che si innamorò di questi boschi.
Provo a fotografarmi con le lucciole intorno, impossibile. Solo con l’argentica e la giusta attrezzatura potrei fare delle foto uniche.
Non riesco ad andarmene, sono eccitata, col respiro corto, come una ninfa di fronte al suo primo amante.
Continuo a fare fotografie cercando di inquadrare le stelle in cielo e quelle in terra contemporaneamente, quando sento un fruscio e il cuore inizia a battere forte, pure scariche di adrenalina. Mi ricordo dei lupi segnalati nella zona ma mi dico che in una notte magica non può succedermi niente.

Tiade PanspermiaAziono il flash, una, due, tre volte, ma nel buio solo il buio si rivela. Arrivo a casa col cuore impazzito, mi sento viva come non mai. Rimango qualche secondo appoggiata alla porta chiusa. Sto indescrivibilmente bene come da tanto non mi sentivo, soprattutto pensando alla giornata faticosa e sono contenta che il mio cuore abbia retto la fatica per tornare a pulsare così forte.
È stato come lanciarsi a cavallo in una folle corsa, l’aria fresca sulla pelle e l’adrenalina, incontenibile, come la felicità, come la consapevolezza che la magia è per pochi.
Vi son luoghi speciali, magici, dove Gea si rivela a chi la sa “vedere”.

E io l’ho vista. E io la vedo.

rimaTiade, nov 2013

prima parte > Le case delle Fate

Le case delle Fate

Nonni di Tiade a BoschinaQuell’estate fu diversa, quanto può essere diversa Milano da una foresta. A sette anni, per la prima volta, fui portata in vacanza dai nonni paterni, in campagna, sulle alte colline dell’Oltrepo pavese.
Una campagna diversa dalle risaie popolate di orbettini e prosciugate dai cantieri per la costruzione delle “case nuove” di S. Siro, noto quartiere di Milano.
E diversa dalla collina del piccolo paese materno, sul Garda, quando ancora le sue viuzze ospitavano il passaggio di pazienti bovini e delle loro odorose “boasse”.
Arrivammo con un piccolo trenino di cui ancora si intravedono le tracce della massicciata che costeggiava la strada. Ricordo ancora la scomodità dei duri sedili in legno che molto ricordavano i vecchi tram di Milano.
Tutto intorno gli alti colli declinavano smeraldine sfumature che deliziavano gli occhi. E poi su, con la jeep americana che ci aspettava in paese e che sollevava dietro di noi la polvere bianca e luccicante di una strada antica e ripida, a guardare il mondo dall’alto, le nari inebriate del profumo penetrante delle ginestre in fiore. Gli occhi si riempirono di meraviglia quando a una curva, stagliata in un cielo di cobalto, apparve la sagoma ferita del castello.
E poi dentro, nello stretto e misterioso sentiero che s’inoltrava fin sull’aia di Boschina. Mi sembrava d’esser atterrata proprio nel mezzo di uno dei miei libri di fiabe. L’aia di una cascina di un’altra epoca dove l’acqua veniva presa ancora dai pozzi o dalle sorgenti, con le slitte tirate dai buoi e il pane cotto nel forno sull’aia, abbracciata da boschi di folletti e di fate, immersa e celata dalle foreste di Salgari.
La sensazione era forte, netta. Un altro tempo. Un altro spazio.
E io, bimba, libera finalmente in mezzo all’Eden. Dalle auto, dal rumore, dalle apprensioni di mia madre.
Libera di vagare, senza perdermi mai, alla scoperta delle sorgenti di un rivo, delle conchiglie nei sassi, di un nido con due bocche affamate sul mondo.
Fu in una delle mie prime esplorazioni che le trovai. Non erano altro che castagni dove, intorno al fusto tagliato, erano ricresciute le piante. Bastava entrare fra i tronchi, sedendo sul ceppo, per essere circondati da un cancello di legno che faceva anche da schienale e che, con la crescita dei suoi polloni bassi, aveva il potere di rendermi invisibile. Per me, allora, erano i rifugi dei misteriosi protagonisti delle mie fiabe. I luoghi dove le fate si nascondevano se in pericolo o per star sole. Lì sedevo, pensierosa e incantata, a osservare il brulicare del bosco.
Tiade Ruderi casscina BoschinaGiovane donna, tornai spesso alle case delle fate. Quando la città mi opprimeva. Seduta nel loro centro, un libro in mano, consapevole di una magia, tornavo a esser invisibile. Talmente immobile nel riposo che qualche scoiattolo arrivava a salirmi sulle gambe percorrendo la sua strada. Come fossi una parte della pianta. Invisibile appunto.
Più avanti negli anni, quando ho deciso di far di questi boschi la mia casa, ho ritrovata intatta la stessa magia. Sembrava che il tempo non fosse passato, se non fosse stato per il castello risanato e per i ruderi di ricordi cari. Pareti rimaste in piedi solo per trasmettermi i saluti, sbiaditi dal tempo, che mi hanno accolta al mio ritorno.
Era un messaggio dal passato. Era una certezza per il presente. Io dovevo esser lì.

Tiade, nov 2013

segue > Tiade e le lucciole

Le brave ragazze obbediscono, quelle intelligenti no.

Ah, che ricordi (vi proibisco di ridere).
I cieli immensi narrano” di Benedetto Marcello. Questa è la versione più attinente che ho trovato ma in rete se ne trovano diverse.
Coro Cantico delle Creature. Conservo ancora il cartoncino degli inviti ai concerti, ché non cantavamo solo in chiesa. Una scala limitata ma soprano puro alle più alte scale.

Tiade 15 anniEra il 1969, quindici anni, praticamente una cozza.

Ora, dopo troppo tabacco, al mattino quasi un baritono. Ancora la ricordo quasi tutta, quasi, impossibile arrivare alle stesse note, forse dovrei smettere di fumare.
Mi piaceva cantare. Fu una bella scoperta, che alle elementari non cantavo, ero troppo timida, mi limitavo a suonare il triangolo. Ricordo la perizia e la pazienza del maestro del coro, Russo, forse Lo Russo, non rammento con precisione. Peccato che dovette trasferirsi in un’altra parrocchia e quando dissi a mia madre che volevo continuare ma che avrei dovuto andarci in tram, come sempre, disse NO. Uno dei tanti. No, per la scuola di teatro, per caso mi avevano invitata a un provino e l’avevo superato alla grande, ma secondo la sua concezione l’ambiente del teatro era “gente poco seria”. No, per la scuola d’arte, seguivo delle lezioni di disegno ma Brera mi attirava come una calamita, a suo avviso l’artista “non è un lavoro”. No, per la mannequin, lavoro che mi era stato offerto accompagnando un’amica indossatrice, una occasione non da poco visto che per qualche sfilata avrei guadagnato più che in un mese come commessa, era un “ambientaccio”. No, per il liceo scientifico, tempo perso, non ero abbastanza “intelligente”. NO, e basta. Una sfilza di No sgranati come in un rosario.
Scuola di segretariato. Non mi piaceva, non mi piaceva studiare partita doppia, economia, non mi piaceva proprio per niente. L’unico vantaggio è che oggi sono dattilografa professionista, e piuttosto veloce, anche se le dattilografe non servono più a nessuno. E dovevo andarci di sera, dopo una giornata di lavoro ai grandi magazzini. Un panino che non calmava la fame, e la testa che non voleva saperne.
Avrei dovuto essere meno obbediente, oggi farei firme false, con le stesse occasioni qualcun’altra lo avrebbe fatto, io no, e ancora me ne pento.