Vecchia signora - erba ghiacciata

Vecchia signora

Vecchia signora - erba ghiacciataIl vento gelido entrava fischiando dalle finestre rattoppate alla meglio.

La vecchia signora accese la pipa riflettendo sul camino che invece non poteva accendere, ben consapevole che c’era chi stava peggio di lei.
Guardò il termometro in casa, quattro gradi e mezzo. Imbruniva e la temperatura sarebbe scesa ancora.

“La neve di febbraio ingrassa il granaio”, pensava, “e anche le sorgenti impoverite da anni di siccità”.
La radio parlava la lingua del jazz mentre volute di fumo aleggiavano nella stanza, diafane come i suoi pensieri.
Anche se godeva della solitudine, le mancava il suo grillo parlante, quel pungolo sulla sua autostima.

-Disciplina soldato, devi scrivere almeno un’ora al giorno! Ah se fossi tuo marito, ti legherei alla sedia. È un delitto che tu non scriva più, un delitto…-

La voce sfumava nel ricordo, ma le parole erano ben impresse nella sua mente. Mon Chevalier, il suo Prof che prof suo non era stato mai.
Non amava vivere di ricordi, ma a volte vi si perdeva. Guardò il caos organizzato intorno a sé, era il presente, ma il suo pensiero era perennemente proiettato in avanti, al futuro, all’antica casa in pietra da restaurare. Al sogno condiviso con suo padre che troppo presto l’aveva lasciata sola. Quell’Olimpo in cima alla collina che le aveva sempre suscitato dimensioni di fiaba.
Forse non ci sarebbe mai arrivata, ma i sogni per diventare progetti vanno rincorsi come se il tempo fosse infinito.
Era consapevole del tempo che passava, un nastro un po’ liso, ma ben resistente.

Tutto si sentiva meno che una vecchia signora, aveva imparato a stupirsi di sé, si era scoperta forte, temprata e selvatica come non avrebbe mai creduto, e non solo dentro. Il quadro che ne usciva, in fondo, era un bel romanzo di avventura. Chissà se sarebbe mai riuscita a scriverlo, o se il pudore, schiavista, le avrebbe incatenato le parole.

Non si decideva ad abbandonare il tepore della boule per dare una pacca alla radio che si era assopita gracchiando.
Aveva spento la stufa per paura che il gas finisse troppo presto.
La notte gelida avvolgeva ormai la casa e il termometro segnava zero gradi.
Sui vetri erano fiorite rose di ghiaccio, scintillanti alla fioca luce dell’unico lampione del borgo che rabbrividiva al vento siberiano.

Anche la neve caduta era gelata e tutto luccicava, gli alberi dei boschi che abbracciavano il suo mondo, l’erba di vetro e anche il sentiero che scricchiolava al passo. Le mani gelate le ricordarono i guanti che non trovata, li aveva messi a posto, ma a posto dove?

Assestò meglio la pelliccia d’orso sul letto, o di qualsiasi animale indefinito fosse, grata del suo sacrifico. Mors tua vita mea, così il mondo era sempre andato. Si sentiva un po’ cinica, ma il gioco della sopravvivenza non ammetteva deroghe, o sapevi giocare o…
Posò la pipa e si decise ad alzarsi per prendere la radio a sberle. Mise un po’ d’acqua sul fornello a gas per un caffè, liofilizzato. -Le cose superflue sono inutili, fanno solo perdere tempo-, le diceva sempre Cesare, il suo amato suonatore Jones personale, ultimo legame con una memoria antica. E una caffettiera consuma più gas, e più tempo, e lei non aveva abbondanza né dell’uno né dell’altro. E poi, in fondo, non faceva tanto schifo, e almeno era caldo.

Mentre sorbiva il caffè un flauto di ghiaccio la riscosse dai suoi pensieri facendola rabbrividire.
Sentì nitida la risatina, ironica e affettuosa, del suo Chevalier:
-Ascolta il vento, sarebbe un bel titolo-

Sorrise.
Spense la radio, tornò sotto il suo orso, assestò il portatile sulle gambe e si mise in ascolto.

Tiade  25 febbraio 2018

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