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Imbranata, blog e paradiso

Allucinata gif animataSon proprio imbranata.

Anni fa avevo aperto uno spazio su Altervista, sperando di riuscire a gestirlo da sola. Poi, per impegni impellenti che si sono sovrapposti, ho lasciato perdere.
Ieri mi son messa in testa che avrei potuto usarlo per fare un po’ di prove, esercitarmi per cogestire il sito insieme al mio informatico e alleviargli un po’ di lavoro, almeno sulle cose di base.
Piena di entusiasmo, cerco la password e rientro nel mio appartamento in affitto. Mi metto di buzzo buono. Bene, qui il menù di gestione è molto più semplice di quello del sito, che bello, sarà facile. Comincio con creare categorie e pagine e poi il menù. Pare vada bene, pare.

Utopia. Mi ero di gran lunga sottovalutata.

Riesco a creare il caos che manco l’entropia.
So gestirmi tra cose che per i più sarebbero ostiche, navigo tra gli spazi siderali, gioco di magia con erbe ed unguenti, faccio concorrenza ad Atlante, creo con poco le cose che mi servono, letteralmente creo e non solo opere, navigo al buio che manco i gatti, forse perché sono orba e a non vederci sono abituata, salgo, scendo, viaggio, parlo “estero” dopo eoni che non lo parlo più, benedetta memoria, vivo come le mie ave agli inizi dell’ottocento, mi destreggio tra codici e codicilli, sbianco, muro, smartello, spacco, sego, coltivo…
Ma un blog preimpostato no, un misero blog che saprebbe gestire un bambino di dieci anni, quello no.
Non mette la presentazione nella sezione specifica, e nemmeno l’ultimo articolo che la home non vede. Smanetto, sposto, disfo e rifò.
Niente. Più che inserirsi nuove cose spariscono quelle già inserite.

Mi faccio un caffè, liofilizzato.
Non mi arrendo.

Clicco, sposto, leggo istruzioni, frugo, inserisco, cancello, smadonno in tigrai, reinserisco, controllo, rismadonno.
Mi impunto, rifaccio tutto daccapo, ci passo la notte mangiando una scatoletta e bevendo un altro caffè, sempre liofilizzato.
Niente ancora, non fa quello che dovrebbe, o meglio, quello che “io presumo” dovrebbe fare.

-Cazzo, per essere una cittadina ti riesce meglio l’orto!- mi strillo ad altra voce.

Mi rassegno, aspetterò il mio Delfino, alle prese con gli hosting, ché mi spieghi dove ho sbagliato, e se l’errore è rimediabile.
Passo ad altro ché il daffare non mi manca.
Magari, prima che venga buio che poi non ci vedo, potrei cominciare col ricaricare le taniche d’acqua per riempire il serbatoio, lavare le stoviglie che si sono accumulate, ho finito il pane per cui sarà utile farne almeno mezzo chilo, e magari un dolce semplice con uova, latte e burro.

E poi, poi, poi… scaldare i pentoloni d’acqua e riempire la vasca, anche senza portare la stufa in bagno che tanto non fa più tanto freddo, e concedermi un paradiso.
Musica zen, schiuma e incensi di sandalo, gemme, il tabacco l’ho finito, spuntino e liquorino, candele, e un libro. Un libro a cui concedersi che da tanto non leggo presa dal “fare”.

Il mio paradiso non può più attendere.

Buon paradiso.

Aggiornamento

Il paradiso è rimandato, ma sono fiera di me. Ho fatto un passo avanti.

Libri e Lumi

Libri e lumi

La scrittura non si sa di preciso quando e dove sia nata. Ogni popolo, fin dall’antichità, ha adottato un suo sistema per imprimere il suo pensiero da qualche parte, dalla pietra alla carta, al web, che fosse l’inventario delle greggi, la successione delle dinastie o un aforisma scopiazzato, sbagliato, e “postato” su un social.

Si trovano petroglifi, “stampe” di mani nelle grotte, testi sulla creta in scrittura cuneiforme, pergamene, rotoli in rame o in carta di papiro.
Svariati i materiali usati anche come “inchiostri”. Ocra, succo di bacche, carbone, oli e fuliggine.
Altrettanto varie sono stati gli strumenti per scrivere, dai bastoncini ai“timbri” di legno, dalle mani agli strumenti per incidere, fino alle penne d’oca che si usarono per vergare, in bella grafia, atti pubblici o romantiche lettere d’amore, che spesso impiegavano mesi, se non decenni, per giungere al destinatario.
“Scritture” realizzate alla luce di torce, lumini a olio, candele steariche, lampade a petrolio, e oggi, a quella fredda di un monitor.

 I libri, così come noi oggi li intendiamo, non erano certo alla portata di tutti, sia perché erano privilegio di casta, sia perché i più non sapevano leggere, sia perché per realizzarne anche uno solo ci volevano mesi, se non anni.
Erano scritti, e decorarti con raffinate miniature, da pazienti amanuensi. Quasi sempre però quei libri restavano nelle abazie a conforto di pochi.  Poi arrivò Gutenberg, che, se non ebbe quello di averlo inventato, sicuramente ebbe il pregio di migliorare il processo di stampa. Da quel momento divenne sempre più perfezionato e veloce, e le persone che imparavano a leggere sempre più numerose.
Insieme alla stampa presero vita anche i caratteri e gli stili, come quelli che oggi andiamo a cercare nel web e che chiamiamo “font”.

Tra i tanti stili di carattere in uso, sai perché il corsivo si chiama “italico” e chi l’ha inventato?

Puoi scoprirlo andando a leggere la presentazione del tipografo, nonché edtore, Giuseppe Antonelli, che ha pubblicato la prima traduzione italiana dell’Encyclopedie francese. Una serie di tomi realizzati in pieno illuminismo, contenenti lo scibile umano dei tempi, il cui spirito è ben palesato nell’intento di esser “utili ed a portata di ogni classe di persone”

 Il libro, insieme al sapere, viene sdoganato, esce dalla biblioteca di pochi privilegiati con la speranza di diventare per tutti, perché sappiano, perché si “illuminino”.
Uno spirito e un’intenzione più volte ribaditi in tutta l’opera insieme alla rivalutazione di quei mestieri considerati “umili”.
Da notare come sia cambiato il linguaggio in un arco di tempo non lontanissimo, un modo di esprimersi per noi abbastanza contorto, con parole e verbi arcaici, ma divertente da leggersi.

Ci Sto…

Parco Lambro da Liberazione70-7Sto scorrendo il fascicolo di Liberazione, Settanta, il numero sette. Millenovecentosettantasei.

Quanti ricordi! Non necessariamente belli. Ma ricchi sì. Molto ricchi.
Una foto. La manifestazione, i pantaloni scampanati, i maglioni alla norvegese.
Io non c’ero che qualche volta.

Un’altra immagine, e un’altra.
Gli operai di una fabbrica alla fine del turno, appena aperti i cancelli. Vanno che paion ragazzi all’uscita dalla scuola. Di corsa, spingendosi, con foga. Fuori da lì, alla svelta!
Io non c’ero, non sempre almeno.
Le donne con i cartelli e i figli sul braccio.
Io non c’ero quasi mai.
E il festival proletario al parco Lambro. Contro il capitale tutti nudi a danzare. E i capelli lunghi giù per le schiene, fino alle natiche sfacciate. Tutti.
Com’erano belli!
Io non c’ero, cavoli.

Era più facile trovarmi di notte, in quei sotterranei che Re Nudo invitava a disertare. Con la musica.
Meno bombe e bella gente, o quasi.
Brera.

Bastava scendere in una bettola con una chitarra e metter sul tavolo qualche gotto in più. E allora arrivavano.
Il vecchio professore d’arte con i suoi quadri, scene di caccia ed occhi sul vino.
O la Cocotte di un tempo, di cui ancora si indovinavano i lineamenti fra le guance cadenti. Uscita dalla macchina del tempo con il suo cappello dalla lunghissima piuma di struzzo. E trucco, e guanti di pizzo, e trine. Tutta in nero. Bocca Rosso ti brucio. E il canto in falsetto. Intorno a lei rivedevi la scena. Era una magia.
La notte, lo spazzino, il tranviere bloccato dal ghiaccio, l’ubriaco di cui da lontano spiavi i pensieri.
L’ultima immagine. Quella su cui il pensiero ha offuscato i ricordi.manifestazione d'ora in poi decido io
Altre donne coi cartelli ritagliati nelle lettere, ché il vento non li porti via.
D’ora in poi decido io.

Io non c’ero. Non potevo esserci. Avevo già deciso, e il mio primo bambino arrivava.

Non facevo politica?
Forse…
Ora, qui, col secondo bambino, osserviamo le immagini con sentimenti diversi.
Riscoperte.
Gli ho chiesto di osservare bene l’ultima foto, di dirmi cosa gli faceva venire in mente.
E di pensare bene prima di dar fiato alle trombe.
……………………………………………………
-L’aborto, il divorzio, il lavoro …”- Bla, bla, bla.
Eh no. Troppo facile. Quando mai ti ho reso facile la vita?
Vuol dire proprio quello che c’è scritto.
D’ora in poi decido io, perché io sono mia, aggiungerei.
Sorridi? Pensi sia uno slogan? Certo! Le donne sono abituate a destreggiarsi con gli slogan, la pentola sul fuoco, il bimbo in collo, il gatto alla salsiccia, la lavatrice che perde, il marito nel… Lasciamo pietosamente perdere dove.
Tutte cose che lasciano la voglia, e il tempo, di scendere in piazza coi figli in braccio a camminar per ore. Un po’ di palestra è tutta salute! Qualcosa sui cartelli da scrivere si trova sempre.

Io non c’ero nemmeno lì. Avevo le treccine e un bambino meraviglioso. Ero mia. Ma forse ancora non lo sapevo.

Ma cosa vuol dire esser di sé stessi?
Vuol proprio dire non appartenere a nessun altro.
-È bello appartenere a qualcuno, è romantico!- Davvero?
Appartenere ad un padre. -A una famiglia- No, no. Proprio al padre. Proprietà indiscussa. Oggetto nelle sue esclusive mani. Patria potestà la chiamavano. Potere di vita e di morte. Codice alla mano. Con le attenuanti di legge per il delitto d’onore per esser stati disonorati dalla figlia. Mica ci voleva tanto. Bastava restare incinte.
Se ti andava meglio venivi buttata fuori casa, diseredata, disconosciuta.
Se tutto filava liscio fino ad età da marito potevano sorgere altri problemi. Esser in età da marito voleva dire che la proprietà passava di mano. La dote era il pagamento del padre al marito per pigliarsi in carico una donna da sfamare. Se andava bene le spettava il corredo, la biancheria era l’unica cosa di sua esclusiva proprietà, forse. Se aveva dei beni, il patrimonio privato del marito si allargava. Ma per il bene della famiglia…
I rapporti sessuali? Dovere coniugale! Le botte? Diritto di correzione! (ius corrigendi). E zitta!
E se scappava? Abbandono del tetto coniugale, perdita del diritto di abitazione nella casa coniugale, e quasi sempre perdita dei figli come madre indegna.
-E se si rifaceva una vita?-(1) Ricordiamoci che il divorzio ancora non c’era. Bastava una denuncia anonima per pubblico scandalo, che si appellava alla pubblica decenza, ed arrivava la buoncostume, ed arrestava la pubblica meretrice e adultera che offendeva la pubblica morale e l’onore del marito.

Figli, casa, corredo, tutto sparito. Non era mica roba sua.
Era lei che apparteneva a loro.

Era un oggetto in funzione e alla mercé, era soggetta a potestà. Non era una persona, loro potevano legalmente disporre di lei.
Com’era romantico!
-D’ora in poi decido io”- voleva dire proprio quello. -Io non sono un oggetto, e nemmeno una bestia, io voglio e devo essere una Persona. Solo se vi imporrò di riconoscermi come persona sarò portatrice di diritto-.
Diritto di determinare la propria vita.
La prima che riuscì, non che provò, a ribellarsi, fu una ragazza siciliana, Franca Viola(2). Compromessa dalla fuitina avrebbe dovuto sposare il suo rapitore per salvare l’onore, e il suo rapitore che sarebbe rimasto impunito ricorrendo al matrimonio riparatore.
No, non era proprio uno slogan scritto per passatempo.
Era un urlo in coro.
Fu quell’urlo che cambiò le cose.
Più potente delle trombe di Gerico, buttò giù un muro durato millenni per loro. La schiavitù. Almeno sulla carta.
Io dov’ero? A far da apripista nella vita. Ad auto determinarmi e, come loro, sulla mia pelle.
Il Diritto di famiglia, così come oggi lo conoscete, arriva da lì. Da quelle caviglie dolenti, da quelle schiene martoriate, dagli occhi lacrimanti di fumogeni e di vita.

Tutto il resto è conseguenza. Divorzio, aborto, lavoro, studio…
Sono gli oggetti che appartengono, si lasciano usare, non sono vivi e quindi non hanno diritti.

manifestazione femminista 1976Ecco perché è importante che sappiate, figli miei, che le vostre amiche sappiano, che voi, giovani uomini, capiate.
Non è abbastanza.
Non è abbastanza dentro le teste se una delle prime cause di morte delle donne sono le violenze domestiche.
Non sarà mai abbastanza fin quando si prendono decisioni per il pubblico interesse, o la pubblica morale, o ancora, per la difesa della famiglia, cancellando la memoria storica.

E io ci sono.
Ci son sempre stata.

Ora, sarà meglio che riflettiate bene prima di decidere se starci dentro pure voi.

Tiade, marzo 2010

Note:

  1. Per il codice penale del 1930 la donna adultera era punita con la reclusione sino ad un anno. Ai fini del reato era sufficiente anche un unico episodio fedifrago. La violazione della fedeltà coniugale compiuta dal marito, invece, per essere punita, doveva assurgere a concubinato, cioè a relazione stabile con un’altra donna. [Fonte: https://castelvetranonews.it/notizie/?r=a1i]
  2. Le cose cambiarono grazie al coraggio di Franca Viola: Violentata e quindi segregata per otto giorni in un casolare al di fuori del paese, fu liberata con un blitz dei carabinieri il 2 gennaio 1966. Secondo la morale del tempo avrebbe dovuto necessariamente sposare il suo rapitore, salvando l’onore suo e quello familiare. Questa morale era supportata dalla legislazione italiana che, all’articolo 544 del codice penale, ammetteva il “matrimonio riparatore”, considerando la violenza sessuale come un oltraggio alla morale e non alla persona.
    Secondo questo articolo del codice, l’accusato di delitti di violenza carnale, anche nei confronti di minorenne, avrebbe avuto estinto il reato nel caso avesse successivamente contratto matrimonio con la persona offesa. Contrariamente alle consuetudini del tempo, Franca Viola non accettò il matrimonio riparatore. Suo padre, contattato da emissari durante il rapimento, fingerà di acconsentire alle nozze, preparando con i carabinieri di Alcamo una trappola. Quando il rapitore rientrò in paese, con i suoi amici e la giovane, i responsabili dell’azione furono tutti arrestati dai carabinieri.
    Il caso sollevò in Italia forti e alte polemiche divenendo oggetto di numerose interpellanze parlamentari.
    Con il Nuovo Diritto di Famiglia, il 19 maggio 1975 n° 151 sancirà, fra le altre cose, l’uguaglianza fra coniugi, abolendo per le donne lo stato di soggetta a potestà. In luogo della patria potestà nacque la potestà genitoriale che vedeva condivisa la responsabilità della prole. Il marito non era più capo famiglia.La donna divenne soggetto.
    Finalmente, nel 1981, il 5 agosto, il famigerato articolo 544 venne abrogato dall’art. 1 della legge 442. Non è più possibile cancellare una violenza sessuale tramite matrimonio riparatore. Questa legge abrogava anche le attenuanti per il delitto d’onore, previsto dall’art. 587, che prevedeva sconti di pena per “Chiunque cagiona la morte del coniuge [leggi “ammazza la moglie”, ndr], della figlia o della sorella [e non del figlio o del fratello, ndr], nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia“.
    [Fonti: http://it.wikipedia.org/wiki/Franca_Viola; http://it.wikipedia.org/wiki/Delitto_d’onore]

Immagini da: Liberazione70_n7_1976

Sono tre parole, “Ti Voglio Bene”…

Lavagna Tre Parole

Amo le biblioteche, anche se, purtroppo, ho poco modo di frequentarle, ma internet, se si pensa che sia un mezzo e non un fine, è proprio una grande invenzione. Un mare di nozioni pronte all’uso, senza dover scartabellare schede, nella speranza di trovare quello che stiamo cercando. Magari una spiegazione, un chiarimento.

Succede così di navigare alla ricerca di nozioni che ci consentano di fare meglio quello che già stiamo facendo, o meglio, cercando di fare. In rete manuali e tutorial non mancano ma, spesso, sono come le istruzioni per il lucido da scarpe: “Applicare, spandere, spazzolare, lucidare. Ciao, al prossimo tutorial“.

Nel mio frugare per capire qualcosa di più sulla scrittura creativa, sulla gestione dei blog, e tutto ciò che ne è il companatico, sono invece inciampata più volte nel sito di Daniele Imperi, Penna Blu, “web writer, lettore“,  ironico e cortese anfitrione, che non manca di rispondere ai commenti di chi segue i suoi articoli.
Un blog “in cui parlare di scrittura, blogging, editoria e lettura“, esaustivo, argomentato, oltre che ben frequentato.

Oggi, leggendo un suo articolo, ho decido di accettare il suo invito, quello di scrivere tre parole che siano propositi e guida per l’anno appena iniziato, il 2018.
Sì, però mi ha messo in crisi. Quali sono i miei propositi? Da una vita ne perseguo uno, tutto è finalizzato a quello, il mio Olimpo.

Ci penso un po’, lascio che i pensieri sgelino come le stallatiti al davanzale e scrivo quello che mi passa per la testa, di getto, come sempre.
Scrivere e dipingere. Ma il mio lato creativo non è un proposito, è istinto, come respirare. Devo dunque separare i propositi dal “divertimento” e dalle mere esigenze, come il “vil conquibus“.
La gestione del blog non dipende da me sola, che in realtà in quanto a materiale potrei campare di rendita con tutto ciò che ho prodotto negli anni passati, parole ed opere, ma anche dal tempo che ha il mio informatico preferito, Reddolphin, che si arrabatta tra lavoro e gestione dei siti, indi, io posso proporre, ma non disporre.
Ordinare. Seee, mi ci vorrebbero almeno cinque operai per un mese, e forse non basterebbero. Non è maturo.

R-esistenza. Beh, quello ce l’ho marchiato in fronte e non può essere per un anno solo, è una regola di vita imprescindibile.
Organizzare. Questo sì che è un proposito grosso. Il mio caos è universale. Eppure dovrò almeno cominciare da qualche parte.

Ci sono.
Pazienza. Non posso fare tutto e tutto insieme. Devo farmi passare l’ansia e dare la precedenza alle cose più importanti senza entrare nelle stanze del panico.
Delfino. Senza di lui niente blog, e se voglio che mi presti il suo tempo devo dargli il mio. Do ut des. Mi sembra giusto, anche se ha il potere di mandarmi a massa il cervello.
Ordinare. Siccome non posso ordinare la mia magione, visto che non posso usare la bacchetta magica al momento dal meccanico, comincerò con ordinare la mole di dati che ho nel pc. Decenni. Chissà che non ne esca qualcosa di editabile. Devo salvare tutto e riformattare, e via col valzer, che mi è più congegnale del tango.

Ecco, queste sono le mie tre parole per quest’anno: Pazienza, Delfino, Ordinare.
Perché il titolo “TI VOGLIO BENE”? Perché: Ti, è proteso verso il prossimo, Delfo che chiede aiuto, Daniele che offre opportunità; VOGLIO, è un verbo insito nei propositi, ché senza volontà di perseguirli a nulla servono; BENE, perché quando ci si propone di fare qualcosa si deve poi farla bene, altrimenti è meglio non farla.

Un sentito ringraziamento a Daniele, per l’invito e per l’input, e a  Delfo per lo sbattimento.
Un ringraziamento anche a Barbara Businaro che ha partecipato all’iniziativa e che mi ospita sul suo bellissimo blog Webnauta. Rivolto a scrittori, lettori e non solo, è ricco di racconti, dritte e tanto altro. Anche lei da seguire.

Tiade, 6 marzo 2018

Dai blog:

  1. 3 parole per il 2018 di Daniele Imperi – Penna Blu.
  2. Tre parole per una rotta di Barbara Businaro – Webnauta.

* Il titolo richiama una canzone di inizio novecento.